1 Settembre 2022
I nostri amici di Parigi mi domandano cos’è la disobbedienza civile, e vorrei condividere con voi la risposta che ho tentato di proporre.
La disobbedienza è la più alta forma di dialogo tra l’individuo e il potere. Mettendo in atto in maniera pubblica una disobbedienza, l’individuo non fugge e non sfugge, pur potendolo,
da un potere che riconosce violento.
Egli mette il potere di fronte allo specchio del proprio corpo, offerto come testimonianza di una suprema ingiustizia.
L’ingiustizia non è ancora compresa, ma è concreta, reale, come la prima luce alla fine della notte.
L’uomo si vede chiamato, quasi costretto dalla propria coscienza a disobbedire, perché la sua azione non gli appartiene.
Egli è una vedetta, un messaggero, un nunzio che grida in silenzio che la notte è finita, proprio quando la notte è più nera.
Deve farlo, è la sua chiamata.
La disobbedienza è solo apparente. Egli obbedisce a una legge in arrivo, e la comunità lo sente, sente l’arrivo del nuovo come gli esseri della natura fremono nei lunghi istanti prima dell’alba.
Anche la comunità obbedisce.
Essa deve condannare la vedetta, ne ha bisogno; deve difendere la notte in cui è immersa e identificata, perché questa notte è il ventre buio e materno che si appresta a partorirla, nuova, vera, e viva.
È giusto e naturale che il nuovo nasca piangendo, e la disobbedienza è l’ostetrica dell’umanità.
È la presa in carico di un dolore necessario, il dolore di un mondo che ha le doglie.
Questo dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra il giorno e la notte, lo chiamiamo disobbedienza, ma la parola dipende da quali occhi parlano, da quali voci guardano un corpo che sembra dire NO, che davvero dice NO, e tuttavia pronuncia per tutti il SÌ più grande: quello alla vita, alla coscienza, all’umanità.
Davide Tutino